il racconto

La luce di un lampione, unica speranza per chi è povero

di Valerio Varesi  

 

Ogni sera prego per il mio lampione. Prego che non si fulmini la lampadina, che Ja­nid, il responsabile dell’azien­da elettrica giù al villaggio, non abbia bevuto troppo e si ricordi di premere l’interrut­tore, che le bande dei ragazzi più grandi non prendano a sassate il paralume, che un guasto non ci lasci al buio …

Io non ho paura del buio, o pau­ra di quel che c’è dentro. L’oscurità rende tutti senza volto e senza re­sponsabilità. Quel che succede succede e basta. E noi che siam pic­coli … Be’, io devo tutto al mio lam­pione. È lì che imparo, leggo e scri­vo. Lui si china su di me e illumina il mio cammino di scolaro. Di gior­no mica ho tempo per fare i com­piti. Mamma mi porta sullo strado­ne camionabile a scroccare due soldi d’elemosina.

C’è sempre una gran ressa da ingor­go sulla camionabile e dal mattino alla sera una fila di rassegnati aspet­ta sonnecchiando sul volante. lo mi arrampico fino al finestrino e chiedo qualche spicciolo. Mia madre altret­tanto. Qualche volta sale in cabina e ci sta per un po’. Poi scende tutta spettinata rimediando qualche mo­neta per sfamarci. Lei ci sa fare, io no. Per me non ci sono che occhia­tacce, insulti e sputi.

Solo qualche volta mi capita di rimediare qualcosa, perlopiù un crostino di pane secco, mezzo bi­scotto, un moncone di grissino … Soldi quasi mai. Quei pochi che avevamo se lì è giocati mio padre col bere. Fino a rimanerci stecchi­to dentro un fosso. L’han trovato le scimmie che già si apprestavano a mangiarselo. Insomma, tutto qui è una gran miseria e tutto quel che desidero è saltarci fuori. Io non voglio finire come mio padre o tanti al­tri che si spaccano la schiena per essere almeno poveri e non crepare tra ­le mosche. Qui è già una conquista essere poveri.

Io voglio diventare dottore. Voglio diventare come il dottor Jean che ha la Maruti nuova, veste in camicia bianca, parla inglese e ogni tanto ci fa visita. Gliel’ho detto qual è la mia am­bizione e lui è scoppiato a ridere. Non so se per ironia o perché lusingato.

Forse pensa che sia un illuso e lo ca pisco: basta guardare la baracca in cui vivo. Ma io ci credo e il mio miglior alleato, l’unico amico, è il mio lampione. Tutto il resto è ostile.

I carretti che passano e mi schiz­zano il fango, i ragazzi più grandi che mi prendono in giro, gli adulti che mi guardano rassegnati e i miei compagni di classe che ogni giorno mi ripetono che è tutto inutile e che sarebbe meglio andassi a giocare con il pallone di stracci giù al campetto. Ma io voglio diventare come il dottor Jean. Non so quale sia il suo vero nome, lo chiamano così qui. Forse non è di queste parti e nem­meno indiano. È troppo bianco e ha i capelli dello stesso colore del pelo dei babbuini. Forse lui ce l’ha fatta perché è straniero e so che nei Paesi ricchi studiare è facile. Qui no. Non ho nemmeno un tavolo dove posare il quaderno. Mi accontento di una predella davanti alla quale m’ingi­nocchio come se pregassi.

A pensarci bene prego davvero. Chiedo la grazia di poter passare il primo ciclo di studi. La mia maestra è molto buona e m’incoraggia. Dice che se prenderò buoni voti, potrei ambire a una borsa di studio. Avrei la possibilità di entrare in qualche collegio a Delhi. Meglio così. Se mi dessero dei soldi, mia madre li spen­derebbe subito per alleviare la no­stra vita, magari aggiustando il tetto della baracca che fa acqua. Se ci penso, mi dispiace di piantare mia madre da sola in questo pantano, ma io non voglio restare qui a rime­diare crostini dai camionisti. Siamo così poveri che non possiamo per­metterci nemmeno i sentimenti. L’unica speranza è sotto questo lampione. È lì che ritrovo la forza per tirare avanti. Benedetta questa luce che mi salva dal buio.

 

da: Scarp de’tenis, agosto-settembre 2022

(A scattare la foto da cui ha preso ispirazione Valerio Varesi è stata una ragazza filippina, Joyce Gilos Torrefranca)