Così, tra violenza e debolezza

Avvenire, Giovedì, 17 Marzo 2022

COSÌ, TRA VIOLENZA E DEBOLEZZA.
Sentirsi abbattuti e inutili, sfidare Dio e trovare la risposta

Caro direttore, seguo tutti i giorni le vicende di questa incomprensibile guerra (le guerre diventano comprensibili, per modo di dire, solo dopo qualche secolo, quando i loro effetti si sono dissipati) e seguo e partecipo della tristezza del Santo Padre, le cui parole sono, nel grande caos mediatico, tra le poche lucide, ragionevoli e non equivocabili.

Vorrei tuttavia aggiungere che, insieme con questo giudizio sulla guerra, c’è sempre più bisogno di un soccorso anche per noi, noi europei, noi italiani, noi cristiani. Il giudizio sull’orrore della guerra deve, al tempo stesso, toccare con chiarezza la dimensione della Speranza. È necessario come il pane, più del pane: altri menti aggiungeremo tragedia alla tragedia.

Può capitare infatti di cedere alla depressione e a un sentimento di impotenza e di incapacità che finisce per bloccare le nostre risorse.

È capitato proprio a me. Allo scoppio della guerra mia moglie e io ci siamo subito resi disponibili per ospitare dei profughi, ma dopo una risposta positiva da parte dell’associazione alla quale ci eravamo rivolti si sono verificati degli intoppi, le persone che dovevamo ospitare non sono arrivate. Questa circostanza mi ha un po’ abbattuto: vedevo intorno a me persone che dedicavano ogni energia per raccogliere aiuti, fare iniziative culturali, qualcuno è partito per raggiungere il confine, in Polonia o in Romania, e io – che non ho mai avuto la natura dell’attivista – mi sono sentito sempre più vuoto e impotente.

Certo, pregavo e prego continuamente, ma questo sembrava non bastare a farmi superare un senso di inutilità, che rende poi difficile rimettersi in moto, blocca il cuore, il pensiero e anche le articolazioni. Si sta fermi, angosciati, a seguire ora dopo ora i notiziari. Ma avere paura è cosa normale (c’è da sospettare di chi dice di non averne), cedere alla paura no. Cedere alla paura è come dare ragione a Putin: si apre una porta alla disperazione, e quella non vede l’ora di entrare. Allora ho sfidato Dio, gli ho detto: Tu non puoi farmi sentire così inutile!, e Dio come sempre mi ha risposto, perché – val la pena dirlo a tutti, anche a chi crede – Dio c’è davvero, e risponde.

È stato l’incontro (online) con un amico sacerdote milanese, che con parole semplici ha cambiato la mia prospettiva. Non mi ha rimproverato, non mi ha fatto sentire in colpa per la mia incapacità: mi ha soltanto ricordato chi sono, per che cosa sono stato fatto. Mi ha ricordato che, se non agli uomini, a Dio io vado bene così come sono, con tutto il mio bagaglio di limiti caratteriali, fisici e anche (mi spiace dirlo perché ho sempre tenuto alla mia intelligenza e alla mia libertà di giudizio) anche intellettuali. Mi ha ricordato che un uomo è fatto, strutturalmente, per il Bene, che un uomo è anzitutto egli stesso un bene in sé.

Sono parole povere, come vedi, e semplici, ma sufficienti a cambiare la mia prospettiva, a darmi pace – perché la pace o c’è adesso, in te, in me, in tutti, o non ci sarà in nessun luogo, quale che sia la soluzione del conflitto.

In questi giorni ho assistito con amarezza alla caduta del velo sull’Europa. Quella fotografia dei Potenti sullo sfondo della reggia di Versailles: che pena, che schifo al cospetto della gente che muore, di città soffocate dalla distruzione! Mi venivano in mente le parole, pronunciate da quelle parti, di Maria Antonietta: « S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche », se non hanno più pane, che mangino brioches.

Mi ha amareggiato l’incapacità di mediazione, il crollo della cultura diplomatica, l’erezione di muri (anche quell’immagine è un muro), di contrapposizioni come unica posizione possibile in un momento in cui salvare anche solo una vita umana – una! – varrebbe tutto il nostro impegno di uomini.

Ma la radice della pace non sta nell’Europa, e nemmeno in quel bene supremo che è la democrazia. La radice sta nella libertà personale, in quella cosa che la nostra tradizione ha chiamato ‘io’, e che – questa è la mia esperienza – consiste nel rapporto con qualcosa che lo supera infinitamente. I marxisti (eretici) della Scuola di Francoforte lo chiamarono il totalmente-altro. Io lo chiamo Dio, quel Dio che spesso nomino senza nemmeno sapere quello che sto dicendo. Quel Dio che ha scelto di morire per me, e nel cui dramma umano, terribilmente umano!, faccio così fatica a immedesimarmi.

Non dico, con questo, che un non credente non possa fare il bene anche mille volte meglio di me. Però penso che occorrerà sempre qualcuno in grado di ricordare a tutti che possiamo dominare il mondo ma siamo ugualmente poveri e piccoli, e che, se esistiamo giorno per giorno, è perché Qualcuno – giorno per giorno, istante per istante – ci toglie dal nostro niente, e ci regala un giorno, un anno, la vita intera, e con la vita tutto il mondo.

È la speranza che, di fronte alla devastazione, può davvero cambiare tutto, perché sta cominciando a cambiare un singolo, insignificante uomo come me.

Grazie, direttore, e buon lavoro