«Vuoi la felicità? Sposati»

Perché ha ancora senso pronunciare il ‘sì’ allʼaltare?
«Dio si è fidato abbastanza degli uomini da fargli amministrare il sacramento»

L’amore per sempre può esistere davvero. Lo racconta con ironia una scrittrice, nonché moglie e mamma Ecco perché nell’epoca del crollo dei matrimoni si può tornare a investire in un progetto ‘ senza data di scadenza’. 

Dal libro di Anna Porchetti “Amatevi finché morte non vi separi. Il matrimonio: scelta per uomini coraggiosi e donne veramente libere” (Effatà Editrice, pagg.142, euro 14) – è tratto lo stralcio di questa pagina.

Si rivolge a un’amica immaginaria, probabilmente una delle tante ragazze un po’ cresciute che sul limitare tra giovinezza e maturità, confine oggi sempre più evanescente, continua a rimandare la scelta più importante della vita, sfogliando una margherita che sembra avere petali infiniti: ‘Mi sposo o non mi sposo?’. La posizione dell’autrice è chiara. Nessuna esitazione. Certo, occorre scegliere l’uomo giusto, navigando in una palude di procrastinatori, ‘medioman’ e presunti principi azzurri. Ma attendere a tempo indeterminato, aspettando l’uomo perfetto, è inutile. Nessuna la troverà mai perché non esiste, come non esiste la donna perfetta. Porchetti argomenta tutto con il sorriso sulle labbra. E non è l’unico valore aggiunto di questo volumetto tutt’altro che scontato.

Ha ancora senso sposarsi? In un mondo in cui ci sono più divorzi che nuovi matrimoni, in cui tanti, addirittura, fanno ancora prima ed evitano di sposarsi, magari convivono, oppure tu a casa tua e io a casa mia, ci vediamo ogni tanto se non ho la partita di calcetto o la réunion con gli amici delle medie o la lezione serale di yoga, chiedersi se sia sensato o no sposarsi capita sempre più spesso a tanti. Anche a gente al di sopra di ogni sospetto.

Anche all’amica che ha disegnato il suo abito da sposa quando era ancora al liceo e non aveva nemmeno il fidanzato. Anche all’altra amica, quella che sogna di fare la mamma da quando ha avuto il primo Cicciobello, a sei anni: correva l’anno 1978, nello scorso millennio. Persino fan più sfegatate del matrimonio, le donne romantiche, quelle tradizionaliste, vedono incrinarsi quella che per secoli è stata una delle nostre grandi certezze: che il coronamento dell’amore fosse il matrimonio, che senza di esso non potesse esserci nessun lieto fine.

Degli uomini non saprei dire. Non ho idea di quando si affacci nella mente di un uomo l’idea concreta che si sposerà. Sospetto che sia quando si innamora davvero. È un dato di fatto che, a un certo punto della loro vita adulta, anche gli uomini comincino a pensare al matrimonio. Per lo meno un tempo. Adesso la scelta è opzionale, conosco tanti che dicono: «Forse mi sposo ma forse anche no, forse la prossima primavera, l’anno che viene, in fondo, che fretta c’ è? Potrò sempre decidere di sposarmi più avanti». Anche io potrò sempre decidermi a ripulire la cantina.

Come no. In fondo sono solo due decenni che includo l’attività nei buoni propositi per l’anno nuovo e almeno il seggiolino bimbo per l’auto forse potrei darlo via, ora che l’ultima figlia ha quindici anni.

Sul senso del matrimonio, si interrogano in tanti: il matrimonio è morto? Il matrimonio è vecchio? Il matrimonio ha ancora valore? Il matrimonio ha perso di significato? (…).

La mia teoria è che, con un buon matrimonio, tu possa essere felice senza nessuna di queste cose… e senza molte altre. Un bel risparmio, a conti fatti. La condizione per accedere a questa felicità profondissima, ma a low profile, sta nel prendere sul serio una frase che avrai già sentito milioni di volte. Non è: «Be inspired», «Connecting People», «Just do it». Non è: «Taste the feeling» come dice la Coca-Cola. Nemmeno «I am loving it», come dice McDonald’s, tutti slogan che la gente normale, che fa la coda in posta e prende l’autobus, non ha idea di cosa vogliano dire. Comunque, no, la frase a cui mi riferisco non è nessuna di queste. È: «Amatevi finché morte non vi separi». Che vuol dire: sposati sapendo di rinunciare alla clausola di recesso. Sposati sapendo che il marito non si può restituire dopo sette giorni. Ma nemmeno dopo sette mesi o sette anni. Perché il matrimonio è indissolubile. Quindi il marito te lo devi tenere. C’è di più. Il fatto che al matrimonio non si applichi la clausola “soddisfatti o rimborsati” rende inutile ogni periodo di osservazione o di prova. Vuol dire che voi due dovete essere soddisfatti per forza, il che è possibile, credimi. E ti rivelerò anche come, a patto che tu rimanga incollata alla lettura delle prossime due o tremila righe: già ti sto rivelando tutto il mio know how, mica pretenderai pure il dono della sintesi? (…).

D’accordo, in molti sostengono che farsi una famiglia non sempre dia la felicità. Forse è anche vero. Non ci credo, ma potrei anche sbagliarmi. Il matrimonio magari non darà sempre la felicità, ma non mi sembra che la solitudine, invece, colmi la gente di gioia fino a traboccarne. Può darsi che esistano single che conducono un’esistenza scoppiettante, gente che trasuda felicità da tutti i pori, anziché sebo, come noi comuni mortali. Può anche darsi che esistano gli Ufo, mica possiamo escluderlo a priori, anche se nessuno li ha mai visti davvero. E può anche darsi che, alla fine, questo matrimonio così demonizzato, questa istituzione così obsoleta e polverosa, questa idea dell’amore romantico che sopravvive agli anni e ai dissesti fisici, anch’essa esista davvero. Nel dubbio, scegli la felicità. Credici. Sposati.

 

su: Avvenire 9 ottobre 2022

Un padre disperato

«Mi ha sorpreso a guardare immagini porno e io l’ho sgridata. Sono pentito»

 

Non l’ho sentita arrivare, lo giuro; fatto è che la mia bambina di sette anni mi è arrivata da dietro, mentre ero al Pc e mi ha chiesto: “Perché guardi quelle tettone, papà?». Lì per lì l’ho trattata male, malissimo, l’ho cacciata via come un insetto fastidioso. Ma ora mi pento, sto malissimo: ho trattato male la mia bambina innocente, mentre c’era solo uno da trattare male: me stesso! Ma non so come riprendere il discorso, come scusarmi con lei … Che fare? Aiuto!   PAPÀ DISPERATO

risponde Mariateresa Zattoni, consulente e formatore, 5 figli

Caro papà disperato, hai proprio ragione ad avercela con te stesso! Almeno per due motivi: il tuo frequentare il porno e il tuo urlare contro la tua bambina che ti ha fatto una stupita e innocente domanda. Tu mi dici nella tua lettera carica di dolore che da quando la tua bambina ti ha sorpreso, ti sei bloccato, non osi più visitare siti porno…  Anzi, dici che la tua bambina è stata l’angelo che ti ha salvato… Forse hai ragione, lo shock è stato terribile e poi hai la tremenda paura che la bambina lo dica alla mamma.

Sorvegliati, però: la salutare paura che hai preso ti ha bloccato, però potresti aver bisogno di aiuto. Quella del porno è una vera e propria dipendenza …

Tu ammetti che nella pomografia ci perdi ore e ore, quando sei sicuro di esser solo in casa e di non essere spiato, che ti sentivi “invulnerabile”. Ma ora, parole tue, “ti fai schifo”. Ebbene, oggi ci sono molti centri di aiuto per queste dipendenze, come gli Alcolisti anonimi per l’alcol e Puri di cuore per le dipendenze da porno. Non aver paura a cercare aiuto, lo devi all’«angelo che ti ha salvato», come dici tu.

Il secondo motivo del tuo sconforto è il male che potresti aver fatto alla tua bambina, anche se ti pare di vergognarti fino al «midollo delle ossa», parole tue. Sì, è il caso di riprendere il discorso, caro papà disperato, ma insieme all’altro angelo custode che il Signore ti ha dato, tua moglie, che tu dici di amare molto. Ebbene, confidati con tua moglie, accetta i suoi spaventati rimproveri e insieme dite alla bambina, con leggerezza e sorridenti: «Papà ha deciso di non guardare più “le tettone” perché ha capito che ha sbagliato». Se lo dite con leggerezza, la bambina sarà sollevata e percepirà (anche senza capirlo) che è la coppia la vera difesa! Auguri di cuore! •

Famiglia Cristiana 37/2022

La testimonianza dell’attrice Beatrice Fazi, attrice

CAMBIATA DALLA LUCE DI UN OSTENSORIO

intervista a cura di Mimmo Muolo (Avvenire 24/09/2022)

 

Che cosa è successo?

Una sera, in un periodo particolarmente buio, in cui avevo anche deciso di smettere di fare l’attrice, camminando lungo via del Corso, ero stanca e cercavo un posto dove sedermi. Ho visto una chiesa aperta e sono entrata. Mi sono seduta presso la porta di ingresso e in quel momento era in corso l’adorazione eucaristica, una pratica religiosa che avevo sempre considerato una cosa vuota, insignificante.

E invece?

E invece a un certo punto, mentre fissavo l’ostensorio, la luce che emanava mi ha colpito gli occhi e ho cominciato a piangere. Ho avuto la certezza che nell’Ostia esposta ci fosse una presenza viva, perché un oggetto inanimato non può colpirti così. E mi si è sciolta la rabbia che avevo dentro. È stato come sentirsi abbracciata da un padre, che mi diceva: “Figlia mia, finalmente sei tornata da me”.

Qual era stato il suo vissuto religioso fino a quel momento?

Avevo rifiutato l’educazione cattolica ricevuta in famiglia e mi ero convertita al buddismo. La traumatica esperienza dell’aborto, a vent’anni, mi aveva profondamente ferita e quando sentivo Giovanni Paolo II e Madre Teresa parlare di aborto crescevano in me lo sgomento e il livore. Ma quella sera c’è stata una svolta ed è iniziato un cammino diverso.

Questo significa che la conversione non è stata immediata?

Sono scappata via e ho ricominciato la vita di prima, ma il Signore mi ha come presa per mano e accompagnata lungo tutti i passi, anche quelli apparentemente “fuori strada”. Ho incontrato un uomo, Pierpaolo, attualmente mio marito. Era un avvocato che veniva spesso nel bistrot dove lavoravo. Ma era ateo e nichilista. Tra l’altro sposato in chiesa anche se il matrimonio era poi fallito. Sono rimasta incinta e questa volta desideravo avere quel bambino. Un giorno una mia amica ci ha chiesto ospitalità, perché veniva da fuori e doveva andare alla catechesi di don Fabio Rosini sui Dieci Comandamenti. “Perché non vieni?”, mi ha chiesto.

E lei ci è andata.

Sì, ma con il mio senso di colpa. Aspettavo un bambino, avevo paura che potesse succedere qualcosa. Sono andata quasi per senso scaramantico, per imbonire una divinità che immaginavo potesse vendicarsi di me che avevo ucciso anni prima la creatura che avevo in grembo. Invece mi sono confessata, proprio da don Rosini. Ricordo la scena: lui stava per assolvermi anche dall’aver abortito, perché ne aveva la facoltà, quando io gli ho detto che convivevo more uxorio con un uomo sposato e divorziato e che non ci saremmo sposati neanche civilmente. È rimasto con la mano a mezz’aria, quasi paralizzata. E con dolcezza mi ha detto che non poteva assolvermi, che il matrimonio è immagine delle nozze di Cristo con la Chiesa e che avrei dovuto astenermi dalla comunione.

Le è crollato di nuovo il mondo addosso…

In realtà quel “no”, mi ha salvato la vita, perché se avessi avuto il “certificato di buona condotta”, non avrei capito la grandezza del dono. Invece così si è acceso il desiderio vivo di conoscere questo Dio così pieno di amore per me.

Che cosa le disse don Fabio?

Mi disse: “Non puoi prendere l’Eucaristia, ma sei chiamata ad essere santa. E se sei qui è perché Dio ha un progetto per te. Dio è sempre fedele. Lui stesso ti parlerà, perché la tua storia è stare dentro la Chiesa”. Tutto quello che è successo poi mi ha confermato che aveva ragione, anche se il percorso non è stato facile. A un certo punto avevo anche deciso di lasciare Pierpaolo, che proprio non ne voleva sentire di sottomettersi all’autorità della Chiesa e di chiedere ad esempio la nullità del suo matrimonio. Ma come mi aveva consigliato don Fabio, mi sono messa davanti alla Parola di Dio e un giorno ho letto un passo di San Paolo che raccomanda alle mogli dei non credenti di restare accanto ai loro mariti. È stata un’illuminazione. A Natale Pierpaolo mi ha accompagnato a Messa e da lì è iniziato anche il suo percorso di conversione. Il 7 luglio del 2008, dopo la nullità del suo precedente matrimonio, ci siamo sposati e quel giorno, insieme con lui sono tornata a fare la comunione.

Che cosa significa oggi per lei l’Eucaristia?

Continuo a sperimentare, personalmente, nel rapporto con mio marito e con i figli, nel mio lavoro di attrice, che quella medicina per il mio spirito è estremamente potente. Quando partecipo alla Messa e mi comunico, sento che Gesù si sta dando tutto per me e che mi accoglie come sono, con lo stesso amore di quella sera in cui stava lì ad aspettarmi nell’Ostia dell’adorazione.

il racconto

La luce di un lampione, unica speranza per chi è povero

di Valerio Varesi  

 

Ogni sera prego per il mio lampione. Prego che non si fulmini la lampadina, che Ja­nid, il responsabile dell’azien­da elettrica giù al villaggio, non abbia bevuto troppo e si ricordi di premere l’interrut­tore, che le bande dei ragazzi più grandi non prendano a sassate il paralume, che un guasto non ci lasci al buio …

Io non ho paura del buio, o pau­ra di quel che c’è dentro. L’oscurità rende tutti senza volto e senza re­sponsabilità. Quel che succede succede e basta. E noi che siam pic­coli … Be’, io devo tutto al mio lam­pione. È lì che imparo, leggo e scri­vo. Lui si china su di me e illumina il mio cammino di scolaro. Di gior­no mica ho tempo per fare i com­piti. Mamma mi porta sullo strado­ne camionabile a scroccare due soldi d’elemosina.

C’è sempre una gran ressa da ingor­go sulla camionabile e dal mattino alla sera una fila di rassegnati aspet­ta sonnecchiando sul volante. lo mi arrampico fino al finestrino e chiedo qualche spicciolo. Mia madre altret­tanto. Qualche volta sale in cabina e ci sta per un po’. Poi scende tutta spettinata rimediando qualche mo­neta per sfamarci. Lei ci sa fare, io no. Per me non ci sono che occhia­tacce, insulti e sputi.

Solo qualche volta mi capita di rimediare qualcosa, perlopiù un crostino di pane secco, mezzo bi­scotto, un moncone di grissino … Soldi quasi mai. Quei pochi che avevamo se lì è giocati mio padre col bere. Fino a rimanerci stecchi­to dentro un fosso. L’han trovato le scimmie che già si apprestavano a mangiarselo. Insomma, tutto qui è una gran miseria e tutto quel che desidero è saltarci fuori. Io non voglio finire come mio padre o tanti al­tri che si spaccano la schiena per essere almeno poveri e non crepare tra ­le mosche. Qui è già una conquista essere poveri.

Io voglio diventare dottore. Voglio diventare come il dottor Jean che ha la Maruti nuova, veste in camicia bianca, parla inglese e ogni tanto ci fa visita. Gliel’ho detto qual è la mia am­bizione e lui è scoppiato a ridere. Non so se per ironia o perché lusingato.

Forse pensa che sia un illuso e lo ca pisco: basta guardare la baracca in cui vivo. Ma io ci credo e il mio miglior alleato, l’unico amico, è il mio lampione. Tutto il resto è ostile.

I carretti che passano e mi schiz­zano il fango, i ragazzi più grandi che mi prendono in giro, gli adulti che mi guardano rassegnati e i miei compagni di classe che ogni giorno mi ripetono che è tutto inutile e che sarebbe meglio andassi a giocare con il pallone di stracci giù al campetto. Ma io voglio diventare come il dottor Jean. Non so quale sia il suo vero nome, lo chiamano così qui. Forse non è di queste parti e nem­meno indiano. È troppo bianco e ha i capelli dello stesso colore del pelo dei babbuini. Forse lui ce l’ha fatta perché è straniero e so che nei Paesi ricchi studiare è facile. Qui no. Non ho nemmeno un tavolo dove posare il quaderno. Mi accontento di una predella davanti alla quale m’ingi­nocchio come se pregassi.

A pensarci bene prego davvero. Chiedo la grazia di poter passare il primo ciclo di studi. La mia maestra è molto buona e m’incoraggia. Dice che se prenderò buoni voti, potrei ambire a una borsa di studio. Avrei la possibilità di entrare in qualche collegio a Delhi. Meglio così. Se mi dessero dei soldi, mia madre li spen­derebbe subito per alleviare la no­stra vita, magari aggiustando il tetto della baracca che fa acqua. Se ci penso, mi dispiace di piantare mia madre da sola in questo pantano, ma io non voglio restare qui a rime­diare crostini dai camionisti. Siamo così poveri che non possiamo per­metterci nemmeno i sentimenti. L’unica speranza è sotto questo lampione. È lì che ritrovo la forza per tirare avanti. Benedetta questa luce che mi salva dal buio.

 

da: Scarp de’tenis, agosto-settembre 2022

(A scattare la foto da cui ha preso ispirazione Valerio Varesi è stata una ragazza filippina, Joyce Gilos Torrefranca)

Sì, il profitto è troppo poco. Due piccole storie di agosto

«Tutto bene?», chiede il cassiere della pizzeria a Domenico. E lui: «In realtà, no: la pizza non era buona». Arriva subito il proprietario insieme al pizzaiolo e commentano: «Ha ragione: ieri l’impasto è uscito male, ci dispiace molto, la prossima volta vedrà che buone pizze facciamo!». Dopo questo dialogo il mio amico paga, e nel conto le pizze erano state addebitate al prezzo normale del menu. «Non metterò più piede in quella pizzeria», è stato il suo ultimo commento.

Sono stato con mio fratello a visitare un borgo marchigiano. Cerchiamo un ristorante, il proprietario ci accoglie dicendoci che servono soltanto il menu turistico: rigatoni “alla castignanese” e spiedini alla brace. Arriva la pasta ed era una tagliatella ai funghi (buona). Quando arrivano gli spiedini, non ascolto il consiglio di mio fratello («lascia stare»), chiedo alla cameriera il perché di quel cambio di piatto, e lei si scusa per l’errore. Subito dopo ci arriva dalla cucina un assaggio di rigatoni. Esce poi il proprietario per scusarsi personalmente e ci fa portare delle (ottime) olive ascolane. Chiaramente nel conto non sono entrati né l’assaggio di rigatoni né la porzione di olive, e noi abbiamo lasciato una mancia.

Il pizzaiolo non ha fatto nulla di illegale né ha violato il contratto, e se il ristoratore non avesse offerto rigatoni e olive non avrebbe fatto nulla di riprovevole. Il possibile sconto del pizzaiolo e il “di più” del ristorante non erano dovuti, entrambi non erano necessari. Ma sta proprio in questi comportamenti non-necessari uno dei segreti del difficile mestiere dell’imprenditore, forse la sua dimensione più importante.

Una domanda: perché il proprietario è uscito personalmente a scusarsi e poi ci ha offerto i rigatoni e le olive? Perché, semplicemente, voleva anche che io e mio fratello Ivan andassimo via contenti. La nostra soddisfazione gli interessava veramente, nella sua scelta c’era qualcosa di intrinseco, di sincero e di genuino. Il suo solo guadagno era per lui troppo poco.

E qui si apre un discorso importante per l’impresa, per l’economia e per la società. Gli economisti fondatori e maestri della scienza economica (A. Smith, A. Genovesi, D. Ricardo, V. Pareto, A. Sen) hanno sempre ripetuto che la legge aurea dell’economia di mercato è il mutuo vantaggio, non l’interesse personale. È la reciprocità la pietra angolare dell’economia di mercato.

Questi discorsi, che ogni tanto (purtroppo non sempre) si insegnano agli studenti di economia, possono sembrare astratti o poco utili alla vita concreta della gente, finché non si entra nelle pizzerie, nei ristoranti, nelle industrie metalmeccaniche, nelle agenzie assicurative o immobiliari, nel mercato del gas.

Il buon imprenditore sa che la soddisfazione reale (non finta né ingannata) di chi sta dall’altra parte del contratto (clienti, fornitori, lavoratori) è parte essenziale del suo mestiere. Perché sa che se un cliente esce scontento dal locale non si è verificato semplicemente un inconveniente. In quella mancata soddisfazione reciproca c’è il fallimento del suo lavoro, non è accaduto qualcosa di marginale o di secondario, ha agito contro la natura (il telos, dicevano i greci) del suo lavoro.

Per il buon imprenditore il suo profitto è troppo poco, e quindi cerca intenzionalmente anche il benessere di chi interagisce con lui, con lei, perché ne ha un bisogno vitale. Quando salutiamo e al nostro “grazie” il negoziante risponde “grazie a lei”, ci stiamo dicendo qualcosa di più di una parola gentile: stiamo riconoscendo la natura reciproca dell’economia.

Far uscire i clienti soddisfatti non è soltanto una strategia intelligente nel lungo periodo (il cliente soddisfatto può tornare) né semplicemente una faccenda di reputazione. C’è molto di più: dietro quei rigatoni e quelle olive c’è la vocazione imprenditoriale, c’è la dignità di un mestiere spesso non capito, ma essenziale per il bene comune.

La vera customer satisfaction – la soddisfazione del cliente – è nata nelle città italiane del Duecento e del Trecento, quando dal cuore dei nuovi Comuni si comprese che commerciare era l’altro nome della civiltà, che il buon mercante era soprattutto un costruttore di reciprocità civile, e quando si spezza questa reciprocità riconosciuta e voluta si smarrisce lo spirito buono dell’intera società.

I pizzaioli come quelli del mio amico e i ristoratori come quello di Castignano vivono e operano l’uno accanto all’altro, lo sappiamo e lo vediamo tutti; ma il giorno in cui i primi dovessero diventare più numerosi dei secondi, magari convincendo tutti che comportamenti come quelli del mio ristorante sono soltanto romanticismo dannoso, quel giorno sarebbe un’ora molto triste per la società e per l’economia.

Nei mercati di tutti i giorni c’è molta più anima di quella che riusciamo a vedere, e anche i politici che si candidano a guidare il Paese dovrebbero aiutarci a custodirla.


Luigino Bruni SÌ, IL PROFITTO È TROPPO POCO. Due piccole storie d’agosto. Avvenire, domenica 28 agosto 2022

Sono Marco Evangelisti…

Nell’ottobre del 2018, così si è presentato:


SONO MARCO EVANGELISTI,

nato a dicembre del 1994. Vengo dalla parrocchia di S.Michele Arcangelo (Santarcangelo).

Ho sentito e iniziato a capire che il Signore mi chiamava all’età di 16 anni, dopo una campeggio con la parrocchia.

Inizialmente ero spaventato e non sapevo bene cosa fare, ma il Signore non mi ha lasciato andare e in me si è acceso e fatto sempre più vivo il desiderio di conoscerlo e di provare a seguirlo nella via verso il sacerdozio.

Nel 2013, dopo il Liceo, all’età di 19 anni, sono entrato in seminario a Rimini

Per due anni sono rimasto in seminario a Rimini poi dal  2015 ho iniziato lo studio teologico e la vita di Seminario presso la comunità del “Pontificio Seminario Regionale Benedetto XV” di Bologna, dove attualmente vivo.

Il 22 Settembre 2017 in cattedrale a Rimini ho fatto l’ammissione agli ordini sacri, più comunemente chiamata “candidatura”, una prima tappa del cammino verso il sacerdozio.

Non è stato certamente un passo definitivo, sicuramente però ha segnato un passaggio importante, un impegno e un desiderio che inizia a prendere forma. In questi anni sono stato e sono ancora accompagnato da tanti bravi sacerdoti ed educatori. Non è sempre stato facile, ma sicuramente posso dire che è un cammino ricco di tanti doni! Il Signore, come dice il nostro Vescovo Francesco, ci restituisce “cento volte tanto”.

Marco

 

Francesco Gesualdi  (su: Avvenire, 9 giugno 2022)

STOP ALLA CULTURA DELLA GUERRA. I CINQUE PASSI NECESSARI DA FARE

Armi, consumi, energia, Stato, cooperazione: la svolta possibile

Ci avevano detto che la globalizzazione ci avrebbe preservato dalle guerre. L’adagio era che permettendo alle imprese di poter collocare i propri prodotti ovunque nel mondo, di poter spostare la produzione dove appariva più conveniente, di poter trasferire i capitali dove erano garantiti maggiori vantaggi, avremmo creato un mondo più interdipendente e quindi più interessato a mantenere la pace.

Ma le crescenti tensioni fra Usa e Cina e soprattutto la guerra in Ucraina, che assomiglia sempre di più a uno scontro fra Russia e Occidente, mostrano che la maggior internazionalizzazione degli affari non è sufficiente a sopire gli istinti nazionalistici che evidentemente fanno parte integrante di ogni forma di capitalismo. E mentre rimane forte l’impegno di ogni governo ad aprire la strada commerciale alle multinazionali battenti la propria bandiera, le tensioni si fanno sempre più accese per il controllo delle risorse e il dominio delle tecnologie.

La conclusione è che il mondo in cui viviamo è sempre più insicuro, per cui dobbiamo chiederci come rifondare l’economia per poter vivere in un mondo al tempo stesso più pacifico e più sostenibile. Penso che per riuscirci dovremmo introdurre cinque grandi cambiamenti che a mio avviso ogni popolo farebbe bene a valutare e attuare anche unilateralmente.

Il primo passo da compiere è la messa al bando delle industrie di armamenti. Il Sipri valuta che nel 2020 le prime cento imprese mondiali di armi hanno avuto un fatturato complessivo di 531 miliardi di dollari, una cifra superiore al prodotto interno lordo del Belgio. Finché produrremo armi avremo guerre perché rappresentano l’occasione di consumo di materiale bellico. E come le imprese di imbottigliamento hanno bisogno di chi beve acqua in bottiglia, allo stesso modo le imprese di armi hanno bisogno di guerre. Non a caso i produttori di armi mantengono rapporti continui con i Ministeri della Difesa e spendono fiumi di denaro per ottenere dai governi scelte a vantaggio delle proprie attività. Secondo l’organizzazione Open Secrets, nei soli Stati Uniti negli ultimi 20 anni le industrie belliche hanno speso 285 milioni di dollari per contributi alle campagne elettorali e ben 2,5 miliardi per spingere le istituzioni statunitensi a compiere scelte politiche e finanziarie favorevoli ai propri interessi. Quanto all’Unione Europea, i numeri ufficiali, risalenti al 2016, dicono che le prime 10 imprese di armi spendono oltre 5 milioni di euro all’anno e dispongono di 33 lobbisti a libro paga per esercitare pressione sulle istituzioni di Bruxelles.

La seconda grande scelta da compiere è l’abbandono del consumismo a favore della sobrietà. Il consumismo è una bestia insaziabile che ha bisogno di quantità crescenti di risorse ed energia. Un’impostazione che spinge inevitabilmente alla sopraffazione per aggiudicarsi le risorse a buon mercato presenti nei territori altrui. Lo testimonia non solo il colonialismo, ma anche il neocolonialismo che oggi si presenta col volto dello scambio ineguale, del land grabbing (il divoramento di terre altrui), dello strangolamento finanziario. Fino a ieri la lotta era per il carbone, il petrolio, i minerali ferrosi, oggi è per le terre agricole, i minerali rari, la biodiversità, l’acqua. L’unico modo per interrompere le guerre di accaparramento è ripensare il nostro concetto di benessere, riportandolo nel perimetro di ciò che ci serve senza sconfinare nell’inutile e nel superfluo. Un compito non semplice, perché si scontra con le nostre pulsioni più profonde, ma con possibilità di successo se torniamo a dare il giusto valore alla sfera affettiva, sociale, spirituale e più in generale agli aspetti relazionali che la logica materialista tende a mettere in ombra.

Il terzo passaggio è la capacità di orientarci totalmente verso le energie rinnovabili perché affidandoci al sole, al vento e alle altre forme di energia naturale, rompiamo la nostra dipendenza dalle risorse altrui. Un’indipendenza che ci rende al tempo stesso meno angosciati, e quindi meno aggressivi, e più propensi alla collaborazione internazionale. Ricordandoci che la transizione energetica sarà tanto più possibile quanto più sapremo orientarci verso la sobrietà per- ché meno consumiamo, meno energia dobbiamo produrre.

Il quarto intervento è la capacità di potenziare l’economia pubblica, precisando che pubblico non è sinonimo di Stato, ma di comunità. L’economia pubblica è l’economia della comunità che diventa imprenditrice di se stessa per garantire a tutti, in maniera solidaristica (e anche gratuita), tutto ciò che risponde a bisogni irrinunciabili come acqua, alloggio, sanità, istruzione e in generale tutto ciò che definiamo diritto. Beni e servizi determinanti per la dignità umana che non possono essere variabili dipendenti dalla disponibilità di denaro, bensì certezze da garantire a tutti tramite la solidarietà collettiva. Se riuscissimo a liberarci dai condizionamenti ideologici capiremmo che il rafforzamento dell’economia pubblica è non solo elemento di progresso umano e sociale, ma anche di pace, perché l’economia pubblica, a differenza dell’economia di mercato, non ha bisogno di espansione. Poiché non vende, bensì distribuisce, non ha la preoccupazione di procurarsi nuovi clienti. Il suo obiettivo è produrre quanto basta per soddisfare i bisogni dei propri cittadini, dopo di che è ben lieta di fermarsi. Non così per le imprese commerciali in lotta perenne fra loro per la conquista di nuovi mercati, se necessario con l’assistenza dei propri governi che magari non usano armi, ma ricatti e altri strumenti di pressione non meno insidiosi perché capaci di suscitare rancori dagli esiti imprevedibili.

E per finire la capacità di improntare i rapporti internazionali a spirito di cooperazione ed equità. Equità per garantire la giusta remunerazione ai produttori e cooperazione per sostenersi reciprocamente e colmare gli squilibri creati da cinque secoli di economia di rapina. Tutto ciò, però, è possibile solo con un cambio di paradigma culturale. In economia bisogna passare dai principi di guadagno, crescita, concorrenza, a quelli di equità, sostenibilità, cooperazione. In ambito sociale bisogna passare dai princìpi di forza, vittoria, successo a quelli di mitezza, rispetto, sostegno. Perché solo predisponendoci diversamente verso l’altro potremo passare da una cultura della guerra a una cultura della pace.

 

 

Gesù, uomo vero

CARI RAGAZZI, GESU’ VERO DIO E UOMO VERO HA ANCORA TANTO DA DIRVI

Perché io, prete di frontiera, dedico un libro a Gesù: per rispondere alle domande di chi ha tutto, eppure non ama la vita, bisogna riandare alle radici del Vangelo.

A novant’anni passati sono ancora sulla soglia e mi arrivano giovani, che noi riteniamo non credenti, che ti spiattellano decine di domande inquietanti.

Hanno bisogno di capire se sono davanti a un falso d’autore o a un uomo che può dar loro delle risposte. In pochi minuti, ti rapiscono e ti immergono dentro le loro inquietudini: “Credi davvero a Dio? Che bisogno c’e di Dio? Ma non capisci che la Chiesa è solo una baracca in cerca di soldi? Perchè moriamo? Perchè siamo al mondo? Ma se e vero che Dio ci vuole bene, perchè permette tanti dolori?”.


E di seguito parlano di felicità, di sesso, di corpo, di silenzio… Sul silenzio, in particolare, molti insistono in modo pressante. La solitudine li spaventa.

Credevo che i giovani fossero più interessati alla giustizia e alle gravi ingiustizie sociali, invece sono spaventati dalla solitudine, dalla depressione, dalle bugie sulla felicità… Ti si piantano lì davanti e non mollano. Non è possibile che io creda a queste balle. Secondo loro siamo al mondo perchè ci è capitata una disgrazia e viviamo cercando di non pensarci. La vita come disgrazia… e l’assurdità di un prete, come me, che non solo si dà da fare per gente come noi (dicono loro), ma salva anche quelli che potrebbero tranquillamente crepare.

Uno dei tanti mi ha detto: “Pensavo che l’importante nella vita fosse fare ciò in cui si crede, ma poi ho capito che la vita chiede di adattarmi e adesso non so più cosa fare. È tutta una cagata… Scusa, ma è così”.

Sono proprio questi ragazzi a distruggermi, perchè con i disperati e con i casi difficili ci sto da decine di anni e in qualche modo qualche risposta la so dare (anche se la risposta più vera la vedono nella vita che conduco e nell’amore che dono a loro), ma a questi giovani che mettono il suicidio tra le cose possibili, che dalla vita hanno tutto e di più, e la odiano, cosa rispondi?

Mi è nata così la voglia di prendere il Vangelo e riportarlo alle origini: una storia impossibile, resa possibile perchè vissuta nel modo più normale… da un uomo vero chiamato Gesù.

presentazione di don Antonio Mazzi su “Famiglia Cristiana” 14/04/2022

Il Papa parla di pace, ma…

 marzo 2022

“Il Papa parla di pace, ma…”

La tecnica di derubricare le parole di Francesco ad appelli di circostanza

ANDREA TORNIELLI

“Il Papa parla contro il riarmo, ma… Il Papa fa il Papa, ma… Il Papa non può che dire ciò che dice, ma…”.
C’è sempre un “ma” che in tanti imbarazzati commenti accompagna l’inequivocabile no alla guerra pronunciato da Francesco, per contestualizzarlo e depotenziarlo. Non potendo interpretare nel senso voluto le parole del Vescovo di Roma, non potendo in alcun modo “piegarle” a sostegno della corsa al riarmo accelerata a seguito della guerra di aggressione scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, allora se ne prendono elegantemente le distanze, dicendo che sì, il Papa non può che dire ciò che dice ma poi deve essere la politica a decidere. E la politica dei governi occidentali sta decidendo di aumentare i già tanti miliardi da spendere per nuove e sempre più sofisticate armi. Miliardi che non si trovavano per le famiglie, per la sanità, per il lavoro, per l’accoglienza, per combattere la povertà e la fame.

La guerra è un’avventura senza ritorno, ripete Francesco sulle orme dei suoi immediati predecessori, in particolare di san Giovanni Paolo II. Anche le parole di Papa Wojtyla in occasione delle due guerre all’Iraq e della guerra nei Balcani vennero “contestualizzate” e “derubricate”, pure dentro la Chiesa. Il Papa che all’inizio del pontificato chiese di “non avere paura” nell’aprire “le porte a Cristo”, nel 2003 supplicò invano tre governanti occidentali intenzionati a rovesciare il regime di Saddam Hussein, chiedendo loro di fermarsi. A distanza di quasi vent’anni, chi può negare che il grido contro la guerra di quel Pontefice non fosse soltanto profetico, ma anche imbevuto di profondo realismo politico? Basta guardare alla rovina del martoriato Iraq, trasformato per lungo tempo nella sentina di tutti i terrorismi, per comprendere quanto lungimirante fosse lo sguardo del santo Pontefice polacco.

Oggi accade lo stesso. Con il Papa che non si arrende all’ineluttabilità della guerra, al tunnel senza uscita rappresentato dalla violenza, alla logica perversa del riarmo, alla teoria della deterrenza che ha imbottito il mondo di così tante armi nucleari in grado di annientare diverse volte l’umanità intera.

“Io mi sono vergognato – ha detto nei giorni scorsi Francesco – quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare”.

Il no alla guerra di Francesco, un no radicale e convinto, non ha nulla a che vedere con la cosiddetta neutralità né può essere presentato come una posizione di parte o motivata da calcoli politico-diplomatici. In questa guerra ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti. C’è chi ha attaccato e ha invaso uccidendo civili inermi, mascherando ipocritamente il conflitto sotto il maquillage di una “operazione militare speciale”; e c’è chi si difende strenuamente combattendo per la propria terra. Il Successore di Pietro questo l’ha detto più volte con parole chiarissime, condannando senza se e senza ma l’invasione e il martirio dell’Ucraina che dura da più di un mese. Ciò non vuol dire però “benedire” l’accelerazione della corsa al riarmo, peraltro già iniziata da tempo dato che i Paesi europei hanno aumentato le spese militari del 24,5% a partire dal 2016: perché il Papa non è il “cappellano dell’Occidente” e perché ripete che oggi stare dalla parte giusta della storia significa essere contro la guerra cercando la pace senza lasciare mai nulla di intentato. Certo, il Catechismo della Chiesa cattolica contempla il diritto alla legittima difesa. Pone però delle condizioni, specificando che il ricorso alle armi non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare, e ricorda che nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso “la potenza dei moderni mezzi di distruzione”. Chi può negare che l’umanità si trovi oggi sull’orlo del baratro proprio a causa dell’escalation del conflitto e della potenza dei “moderni mezzi di distruzione”?

“La guerra – ha detto ieri all’Angelus Papa Francesco – non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”.

C’è dunque bisogno di prendere sul serio il grido, l’appello ripetuto del Papa: è un invito rivolto proprio ai politici a riflettere su questo, a impegnarsi su questo. C’è bisogno di una politica forte e di una diplomazia creativa, per perseguire la pace, per non lasciare nulla di intentato, per fermare il vortice perverso che in poche settimane sta facendo tramontare le speranza di una transizione ecologica, sta ridando nuove energie al grande business del commercio e del traffico delle armi. Un vento di guerra che mettendo indietro le lancette dell’orologio della storia ci fa ripiombare in un’epoca che speravamo fosse stata definitivamente archiviata dopo la caduta del Muro di Berlino.

La libertà sessuale dei ragazzi.

«La libertà sessuale dei ragazzi. Com’è difficile trovare le parole per parlarne»

Che cosa si può dire ad una ragazza di 18 anni che ti viene a raccontare, con libertà e forse con candore, che è andata a letto alcune volte con un suo coetaneo non per amore, ma per provare. Che dopo di ciò, non lo ha più cercato perché temeva che lui iniziasse a provare qualcosa per lei. E che non può dirlo ai suoi genitori perché, secondo lei, ne farebbero una tragedia esagerata?

Come suora che lavora in oratorio e prova a stare accanto agli adolescenti, mi sono sentita di richiamarla a un esercizio della sessualità più ragionato e meno banale, ma mi sono accorta che le mie parole risultavano stonate anche a me, perché non facevano presa su questa ragazza, per altre cose così matura e profonda.

Mi sembrava di ripetere qualcosa che sì, è giusto e riafferma un valore, ma forse non coglie qualcosa dei ragazzi di oggi. Io ho solo una decina di anni più di questa ragazza, ma stento a trovare le parole giuste. (suor Cristina)

 

risponde Fabrizio Fantoni, Psicologo e psicoterapeuta (su F.C. 8/2022)

Cara suor Cristina, è già un bene che questa ragazza sia venuta a parlarle, forse sentendo che avrebbe trovato in lei un’ascoltatrice attenta e sensibile, prima ancora che un adulto che dice la sua, anche a fin di bene.
Questa ragazza ha capito che lei l’avrebbe ascoltata fino in fondo, senza interromperla e senza dare giudizi. Perché solo con questo nostro silenzio senza interruzioni possiamo pensare che i ragazzi saranno poi disponibili ad ascoltare quanto gli diremo.
Perché questa adolescente è venuta a raccontarle la sua storia?
Forse per mettere ordine nei suoi pensieri, forse perché ha intuito che la comunicazione attraverso il sesso può attivare sentimenti ed emozioni intensi che vanno oltre il piacere fisico e la novità dell’esperienza. Tant’è che si è ritirata quando si è accorta che il ragazzo iniziava a sentire per lei un’attrazione non solo sessuale.
Proprio da questo forse si può partire per rendere più vicino a questa ragazza l’invito a una sessualità “meno banale”, come lei giustamente sottolinea.
I gesti del sesso sono “parole” forti e intense, rivolte a un’altra persona. Sono incontro con una persona fisicamente e mentalmente differente.
Che cosa voleva dire questa ragazza? Ha tenuto conto che quanto lei comunicava a quel ragazzo poteva diventare l’occasione per uno scambio profondo? Che in quei momenti guardarsi negli occhi apre una prospettiva più ampia che si può cogliere soltanto se lo scambio riguarda anche i sentimenti reciproci?
Allora con questa ragazza si può cercare di ricordare che il piacere provato, che sembra già grande, può esserlo molto di più se si colloca all’interno di una prospettiva di amore: una conoscenza profonda dell’altro, uno scambio di pensieri e di emozioni, una scelta reciproca, non confinata nello spazio angusto dei pochi giorni trascorsi insieme.
Allora forse si aprirà in questa ragazza una prospettiva differente: una disponibilità alla riflessione morale, una rinnovata profondità.

Così, tra violenza e debolezza

Avvenire, Giovedì, 17 Marzo 2022

COSÌ, TRA VIOLENZA E DEBOLEZZA.
Sentirsi abbattuti e inutili, sfidare Dio e trovare la risposta

Caro direttore, seguo tutti i giorni le vicende di questa incomprensibile guerra (le guerre diventano comprensibili, per modo di dire, solo dopo qualche secolo, quando i loro effetti si sono dissipati) e seguo e partecipo della tristezza del Santo Padre, le cui parole sono, nel grande caos mediatico, tra le poche lucide, ragionevoli e non equivocabili.

Vorrei tuttavia aggiungere che, insieme con questo giudizio sulla guerra, c’è sempre più bisogno di un soccorso anche per noi, noi europei, noi italiani, noi cristiani. Il giudizio sull’orrore della guerra deve, al tempo stesso, toccare con chiarezza la dimensione della Speranza. È necessario come il pane, più del pane: altri menti aggiungeremo tragedia alla tragedia.

Può capitare infatti di cedere alla depressione e a un sentimento di impotenza e di incapacità che finisce per bloccare le nostre risorse.

È capitato proprio a me. Allo scoppio della guerra mia moglie e io ci siamo subito resi disponibili per ospitare dei profughi, ma dopo una risposta positiva da parte dell’associazione alla quale ci eravamo rivolti si sono verificati degli intoppi, le persone che dovevamo ospitare non sono arrivate. Questa circostanza mi ha un po’ abbattuto: vedevo intorno a me persone che dedicavano ogni energia per raccogliere aiuti, fare iniziative culturali, qualcuno è partito per raggiungere il confine, in Polonia o in Romania, e io – che non ho mai avuto la natura dell’attivista – mi sono sentito sempre più vuoto e impotente.

Certo, pregavo e prego continuamente, ma questo sembrava non bastare a farmi superare un senso di inutilità, che rende poi difficile rimettersi in moto, blocca il cuore, il pensiero e anche le articolazioni. Si sta fermi, angosciati, a seguire ora dopo ora i notiziari. Ma avere paura è cosa normale (c’è da sospettare di chi dice di non averne), cedere alla paura no. Cedere alla paura è come dare ragione a Putin: si apre una porta alla disperazione, e quella non vede l’ora di entrare. Allora ho sfidato Dio, gli ho detto: Tu non puoi farmi sentire così inutile!, e Dio come sempre mi ha risposto, perché – val la pena dirlo a tutti, anche a chi crede – Dio c’è davvero, e risponde.

È stato l’incontro (online) con un amico sacerdote milanese, che con parole semplici ha cambiato la mia prospettiva. Non mi ha rimproverato, non mi ha fatto sentire in colpa per la mia incapacità: mi ha soltanto ricordato chi sono, per che cosa sono stato fatto. Mi ha ricordato che, se non agli uomini, a Dio io vado bene così come sono, con tutto il mio bagaglio di limiti caratteriali, fisici e anche (mi spiace dirlo perché ho sempre tenuto alla mia intelligenza e alla mia libertà di giudizio) anche intellettuali. Mi ha ricordato che un uomo è fatto, strutturalmente, per il Bene, che un uomo è anzitutto egli stesso un bene in sé.

Sono parole povere, come vedi, e semplici, ma sufficienti a cambiare la mia prospettiva, a darmi pace – perché la pace o c’è adesso, in te, in me, in tutti, o non ci sarà in nessun luogo, quale che sia la soluzione del conflitto.

In questi giorni ho assistito con amarezza alla caduta del velo sull’Europa. Quella fotografia dei Potenti sullo sfondo della reggia di Versailles: che pena, che schifo al cospetto della gente che muore, di città soffocate dalla distruzione! Mi venivano in mente le parole, pronunciate da quelle parti, di Maria Antonietta: « S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche », se non hanno più pane, che mangino brioches.

Mi ha amareggiato l’incapacità di mediazione, il crollo della cultura diplomatica, l’erezione di muri (anche quell’immagine è un muro), di contrapposizioni come unica posizione possibile in un momento in cui salvare anche solo una vita umana – una! – varrebbe tutto il nostro impegno di uomini.

Ma la radice della pace non sta nell’Europa, e nemmeno in quel bene supremo che è la democrazia. La radice sta nella libertà personale, in quella cosa che la nostra tradizione ha chiamato ‘io’, e che – questa è la mia esperienza – consiste nel rapporto con qualcosa che lo supera infinitamente. I marxisti (eretici) della Scuola di Francoforte lo chiamarono il totalmente-altro. Io lo chiamo Dio, quel Dio che spesso nomino senza nemmeno sapere quello che sto dicendo. Quel Dio che ha scelto di morire per me, e nel cui dramma umano, terribilmente umano!, faccio così fatica a immedesimarmi.

Non dico, con questo, che un non credente non possa fare il bene anche mille volte meglio di me. Però penso che occorrerà sempre qualcuno in grado di ricordare a tutti che possiamo dominare il mondo ma siamo ugualmente poveri e piccoli, e che, se esistiamo giorno per giorno, è perché Qualcuno – giorno per giorno, istante per istante – ci toglie dal nostro niente, e ci regala un giorno, un anno, la vita intera, e con la vita tutto il mondo.

È la speranza che, di fronte alla devastazione, può davvero cambiare tutto, perché sta cominciando a cambiare un singolo, insignificante uomo come me.

Grazie, direttore, e buon lavoro

Norme anticovid

11 gennaio 2022

Norme anticovid: nuove indicazioni della CEI

In data 10 gennaio sono pervenute indicazioni da parte della Segreteria della Conferenza Episcopale Italiana a seguito delle ultime normative del Governo di contrasto alla pandemia covid-19. Come si può vedere dalla Lettera e Allegato , per le celebrazioni liturgiche nelle chiese (S. Messa, adorazione, confessioni, matrimoni, funerali …) non è richiesto il greenpass. Tuttavia “si continua a osservare quanto previsto dal Protocollo CEI-Governo del 7 maggio 2020, integrato con le successive indicazioni del Comitato Tecnico-Scientifico: mascherine, distanziamento tra i banchi, niente scambio della pace con la stretta di mano, acquasantiere vuote…

Per l’età della catechesi, “chi è sottoposto a “sorveglianza con testing” non potrà partecipare al catechismo, pur risultando negativo al primo test, fino all’esito negativo del secondo test da effettuarsi cinque giorni dopo il primo. Per gli operatori (catechisti, animatori ed educatori…) è vivamente raccomandato l’utilizzo della mascherina FFP2. Anche ai partecipanti alla catechesi tale tipologia di mascherina sia raccomandata.”

La nuova ondata di contagi e l’obbligatorietà del vaccino per gli over 50 richiede che anche tutti preti, i diaconi, gli operatori pastorali (in particolare catechisti, ministri istituiti, educatori giovanili) siano vaccinati (salvo serie e comprovate controindicazioni certificate dal proprio medico).

In conformità all’obbligo di green pass rafforzato per tutti i lavoratori dipendenti in vigore dal 15 febbraio si chiede che anche tutti i dipendenti delle nostre parrocchie siano forniti di tale green pass.

In merito alle altre iniziative pastorali, “dal 10 gennaio 2022, si richiede il Green Pass rafforzato per qualsiasi attività culturale, sociale e ricreativa che coinvolga pure adulti, anche qualora si svolgano in ambienti parrocchiali. Non è previsto il Green Pass per attività che coinvolgano solo minori come, ad esempio, una sorta di “oratorio estivo”.”

Ad imitazione di quanto avviene nelle scuole, non è richiesto alcun green pass per i minori fino ai 17 anni, che frequentano le attività di catechismo e nei gruppi associativi (si mantengano invece, mascherina e sanificazione mani e ambienti).

Facciamo nostra l’esortazione dei nostri Vescovi : “Consci della situazione generale, raccomandiamo a tutti prudenza, senso di responsabilità e rispetto delle indicazioni utili a contenere l’epidemia.”

 

E il cane?

DEDICATO AGLI AMICI DEGLI AMICI

Un uomo camminava per una strada con il suo cane. Si godeva il paesaggio, quando ad un tratto si rese conto di essere morto.

Si ricordò di quando stava morendo e che il cane che gli camminava al fianco era morto da anni. Si chiese dove li portava quella strada. Dopo un poco giunsero ad un muro bianco molto alto che costeggiava la strada e che sembrava di marmo. In cima ad una collina s’interrompeva in un alto arco che brillava alla luce del sole.

Quando vi fu davanti, vide che l’arco era chiuso da un cancello che sembrava di madreperla e che la strada che portava al cancello sembrava di oro puro. Con il cane s’incammino verso il cancello, dove ad un lato c’era un uomo seduto ad una scrivania.

Arrivato davanti a lui, gli chiese: – Scusi, dove siamo?

– Questo è il Paradiso, signore, – rispose l’uomo.

– E non si potrebbe avere un po’ d’acqua?

– Certo, signore. Entri pure, dentro ho dell’acqua ghiacciata.

L’uomo fece un gesto e il cancello si aprì.

– Non può entrare anche il mio amico? – disse il viaggiatore

indicando il suo cane.

– Mi spiace, signore, ma gli animali non li accettiamo .

L’uomo pensò un istante, poi fece dietro front e tornò in strada con il suo cane.

Dopo un’altra lunga camminata, giunse in cima ad un’altra collina, in una strada sporca che portava all’ingresso di una fattoria, con un cancello che sembrava non essere mai stato chiuso. Non c’erano recinzioni di sorta.

Avvicinandosi all’ingresso, vide un uomo che leggeva un libro seduto contro un albero.

– Mi scusi, – chiese. – Non avrebbe un po’ d’acqua?

– Sì, certo. Laggiù c’ è una pompa, entri pure.

– E il mio amico qui? – disse lui, indicando il cane.

– Vicino alla pompa dovrebbe esserci una ciotola.

Attraversarono l’ingresso ed effettivamente poco più in là c’era un’antiquata pompa a mano, con a fianco una ciotola.

Il viaggiatore riempì la ciotola e diede una lunga sorsata, poi ne offrì al suo amico cane. Continuarono così finché non furono sazi, poi tornarono dall’uomo seduto sotto l’albero.

– Come si chiama questo posto? – chiese il viaggiatore.

– Questo è il Paradiso.

– Be’, non è chiaro. Laggiù in fondo alla strada uno mi ha detto che era quello, il Paradiso.

– Ah, vuol dire quel posto con la strada d’oro e la cancellata di madreperla? No, quello è l’Inferno.

– E non vi secca che usino il vostro nome?

– No, ci fa comodo che selezionino quelli che per convenienza lasciano perdere i loro migliori amici.


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Saper dire addio

su AVVENIRE del 3 novembre 2021

«Il saper dire addio e l’aiutare a dirlo»

di Lello Ponticelli, sacerdote e psicologo

L’addio è «un’arte difficile che pochi sanno usare», ha scritto Umberto Folena, e che, però, possiamo imparare. In questi giorni, laici e credenti, siamo accomunati dal ricordo dei defunti e potrebbe essere importante confrontarci con la domanda sul «Come dire ‘addio?’ ». E «come aiutare gli altri a dirlo?».

Anni fa ci provò un vescovo, il compianto cardinale belga Godfried Dannels, in una bellissima lettera pastorale intitolata: «Dire Addio». Ne suggerirei la lettura a tutti. Poi mi metterei alla scuola di quanti, durante la pandemia, negli ospedali, nelle Rsa, nei pronto soccorso hanno aiutato le persone a prendere congedo da questo mondo facendo sentire il calore di una presenza, non certo sostitutiva dei familiari, ma importantissima e davvero straordinaria: non saremo loro mai grati abbastanza!

Addio: appena pronunci questa piccola parola ti sale un groppo in gola; struggente e malinconica, essa evoca il dolore che accompagna tutte le esperienze di distacco e perdita, soprattutto quelle di una persona cara.

Eppure, è una parola densa di mistero e di speranza che potremmo riscoprire nel suo dolce richiamo alla destinazione finale del nostro vivere e morire. Proviamo a pronunciarla quasi come un sussurro alle orecchie del cuore: «A Dio», ecco il tuo approdo! Da Dio a Dio: questo il nostro pellegrinaggio e non un vagabondare «dall’ostetrico al becchino» ( Vittorio Messori).

Dire addio mette in gioco ciascuno di noi, con tutto quello che siamo. E chiede di imparare a vivere l’esperienza delle nostre «perdite» e dei nostri lutti, senza far finta di niente, senza scorciatoie, ma accettando di fare un lungo e tortuoso cammino.

Si tratta di attraversare l’ora dello sconcerto come quella della rimozione; l’ora dello scoraggiamento e dell’apatia, come quella della protesta e della rabbia, magari anche nei confronti di Dio.

E ciascuno il cammino lo farà a suo modo, col suo ritmo e i suoi tempi, con un esito per nulla scontato, nella speranza di avere qualche solido punto di orientamento e, forse, una guida e una compagnia.

Ma spesso, proprio accettando di camminare a tentoni e in solitudine, può emergere forte il richiamo di Dio e della sua grazia, la mite fortezza della fede e il grido della preghiera, che possono condurre all’abbandono fiducioso, alla riconciliazione con se stessi, con la vita e finanche con la morte, con la possibilità di appellarla come «sorella».

Cosa abbiamo imparato finora sull’arte di dire addio? Cosa ci ha consegnato la pandemia su quest’arte? Forse abbiamo appreso che c’è bisogno di dedicare al prossimo più tempo e tanto ascolto, perché le pene dell’anima possano emergere ed essere dette a un cuore amico.

C’è bisogno di lasciare ai «fratelli tutti» la possibilità di poter esprimere fino in fondo quanto si portano dentro: di tristezza, di rimpianto, di colpa, ma anche di rabbia e forse anche di disperazione. Ognuno di noi ha potuto e può ancora imparare a stare accanto all’altro senza rispondere subito ai perché, ma spesso solo aiutando a reggerne l’urto.

Paradossalmente, proprio in un tempo dove la distanza fisica si è imposta, abbiamo imparato che la vicinanza spirituale affettuosa e sobria, si fa custodia del benessere dell’anima, del cuore e della mente; che offre il tepore e il ristoro di relazioni significative e autentiche, tanto più se coinvolgono anche la comunità nel suo insieme.

Per aiutare a dire «addio» e accompagnare le persone nell’ora del lutto, abbiamo imparato che talvolta sarà necessario sottrarre l’altro all’apatia e alla paralisi di cui è tentato, superando la paura di essere invadenti.

Chi piange la perdita di una persona cara ha bisogno di sapere che noi ci siamo, anche se non sappiamo dire niente ma soltanto ascoltare e comprendere, empatizzare e consolare, sostenere, all’occorrenza anche scuotere.

Per accompagnare nell’ora del lutto, sarà tanto importante lasciare che l’altro racconti e si racconti, mentre ritrova la strada di un’apertura nei confronti del prossimo, ponendo gesti di generosità e carità, in memoria dei suoi cari (Enrico Parolari).

Imparare a dire addio e aiutare a dirlo, affratella. È un’arte preziosa che anche Gesù ha imparato, vissuto e poi insegnato: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io». (Gv 14.1-3)

Ritrovarsi è cambiare

Francesco Ognibene – su AVVENIRE 22 ottobre 2021

RITROVARSI È CAMBIARE

Quanto sia prezioso ritrovarsi si fa chiaro quando succede davvero. È così, e non c’è crisi in grado di far fuori questa umana realtà: nulla vale l’incontro diretto, l’occasione per vedersi, l’abbraccio forse solo accennato, in ossequio alle prudenze sanitarie, lo scambio diretto (e vigoroso) di idee e di esperienze.

C’è in questa stagione di ripresa cauta, eppure ogni giorno più convinta, la felice constatazione che siamo ancora noi, vivi e inquieti, in cerca degli altri e di noi stessi. Di progetti, di amici, di interlocutori seri.

Abbiamo ancora bisogno di condividere quel che ci preme, l’impegno che muove la vita. Vedersi tra chi sente di dover dare corpo a speranza e futuro, cercandone intanto i germogli dovunque spuntino, è indispensabile soprattutto per non pensarsi isolati, forse illusi, campioni di navigazione solitaria e vana, e sapersi viceversa dentro un cammino che è di tanti con lo stesso sguardo di attesa del meglio ancora da venire. Incontrarsi, allora, è necessario semmai più di prima.

Della Settimana sociale nazionale di Taranto dunque c’era un gran bisogno, proprio ora che si riprende la strada. Ora che il Paese si rimette in piedi, che la Chiesa avvia l’esperienza sinodale, ora che si aggrovigliano segnali di fiducia e di incertezza, idee e sogni con ferite che restano e altre che si aprono. Ora che ovunque si avverte la fretta di lasciarsi la notte alle spalle: proprio ora bisogna ritrovarsi, rivedere volti e vite che ci sono familiari, fare nuove conoscenze tra chi percorre la nostra stessa strada, magari con altro ritmo e stile, forse con una diversa mappa tra le mani.

Con una meta comune, però: dovunque si può, «proporre percorsi di cambiamento duraturi», per dirla con l’espressione che il Papa ha affidato ai 670 delegati dalle diocesi di tutta Italia convenuti nella città pugliese, purtroppo segnata da anni di sviluppo e di crisi ugualmente insostenibili. In quattro parole ha tracciato un intero programma per oggi e domani. E un buon motivo per non perdersi di vista, perché la pandemia ci ha spiegato a modo suo che sentirci ed essere una comunità variegata e viva è la condizione per affrontare ogni prova e preparare un futuro abitabile.

Da Taranto la Chiesa italiana sta dicendo al Paese che serve tornare a guardarsi negli occhi, ma davvero, perché la tecnologia digitale – che pure sta ancora dando una mano a non lasciar smagliare il tessuto ecclesiale e civile – va usata bene (e non va lasciata a chi la usa male), ma mai potrà comunicare la gioia generativa di chi si ritrova dopo mesi di obbligati contatti a distanza. E il primo appuntamento in Italia allestito dopo la stagione dei lockdown da una ‘grande organizzazione’ diffusa e davvero popolare, con centinaia di partecipanti in rappresentanza di milioni e milioni di ‘partecipi’, è un segnale potente di fiducia. Un modo per dire forte e chiaro, da cattolici e da cittadini, ‘bentornato, domani’, e ‘benvenuti, in un tempo d’impegno’.

Rimettersi in marcia è molto ma non è tutto: serve farlo con coraggio e ambizione di bene, e farlo insieme, sentendosi responsabili degli altri, facendo posto a chi non ne aveva mai avuto. Non è la stagione dell’indifferenza, né di quella libertà tutta a scartamento individuale che ci vogliono far bere come buona. Non c’è più spazio per parole vuote. Non può essere il tempo dell’apatia e della delega di pensieri e fatti, come se altri potessero prendere il nostro posto. Se non ci siamo, semplicemente mancherà quel che potevamo dare. Che è molto. E forse neppure abbiamo idea di quanto può servire.

Ecco perché è così necessaria Taranto, e il suo clima sociale e ambientale. Giorni insperati, e invece eccoci di nuovo a cercare l’orizzonte insieme. «Questo appuntamento ha un sapore speciale – ha detto il Papa ai delegati –. Si avverte il bisogno di incontrarsi e di vedersi in volto, di sorridere e di progettare, di pregare e sognare insieme». Non siamo organizzatori di convegni: siamo la Chiesa che sente la stagione che viviamo come un’occasione inimmaginabile per essere se stessa ancor più di prima. E mai solo per se stessa. È l’alba del seminatore. Ed è chiaro qual è il campo che ci attende.

Alberto Pellai 

BAMBINI DELLA SCUOLA PRIMARIA CHE GUARDANO “SQUID GAME”

“Sono un’insegnante di scuola primaria con 2 classi quinte. In questi giorni è venuto alla luce la visione da parte di gran parte dei miei alunni della serie SQUID GAME visibile su una piattaforma che trasmette principalmente serie televisive. Ho trascorso 2 giorni a colloquiare con i miei alunni per capire come lo avessero conosciuto, come e con chi lo avessero visto e il tipo di emozione o motivazione che suscitava in loro. La trama è la costrizione di persone povere, emarginate e problematiche si giocare a 6 giochi (tra cui 1,2,3 stella): la pena per l’errore del gioco è la morte attraverso delle bambole che uccidono gli sconfitti. La serie è coreana e la visione è in lingua originale con i sottotitoli. Durante la ricreazione li vedo spesso giocare a 1 ,2, 3, stella simulando la squalifica dei compagni con il gesto della pistola. E io che fino a poco tempo mi ero quasi commossa nel vederli giocare in gruppo a dei giochi dei vecchi tempi. Solo ora traggo l’amara realtà”.
Questo è uno dei tanti messaggi che ho ricevuto in questi giorni da parte di adulti preoccupati perché bambini della scuola primaria sono diventati spettatori fedeli della serie televisiva “Squid Game”.
Io non l’ho vista. Quindi sto parlando di qualcosa che non conosco, ma di cui ho letto molto.
So che la serie è incentrata su adulti coinvolti in un torneo di giochi tipici dell’infanzia, per cui riceveranno cospicui premi in denaro. Però se vengono sconfitti, saranno uccisi. La serie è sconsigliata a chi ha meno di 14 anni, ma l’evidenza di moltissimi docenti ed educatori è che sia entrata nelle preferenze e nelle scelte di visione di molti bambini e bambine, ragazzi e ragazze preadolescenti.
La violenza della serie è anche graficamente molto “spinta” ed esplicita: quando si viene uccisi, schizza sangue dappertutto. Gli insegnanti dicono che i bambini ci ridono su e si tranquillizzano vicendevolmente dicendosi “tanto non è sangue vero, è sugo di pomodoro”. In molti hanno chiesto che io commentassi tutto ciò.
Non posso che riprendere ogni singolo concetto espresso nel nostro libro “Vietato ai minori di 14 anni” (De Agostini ed.): quando sei bambino/a o preadolescente la tua mente non è in grado di gestire la complessità di alcune esperienze a cui puoi avere accesso, ma per cui non possiedi competenze emotive-cognitive di rielaborazione e integrazione dentro di te.
E’ qualcosa di cui noi genitori dobbiamo essere assolutamente consapevoli. Altrimenti nella vita dei nostri figli entra il peggio e nella loro mente, dimensioni ed esperienze che hanno significati e risvolti emotivi enormi (la vita e la morte lo sono; la violenza fine a se stessa lo è; il gioco che si trasforma in esperienza per vincere soldi o per subire la morte lo è) si depositano in modo caotico e disorganizzato.
Potendosi anche trasformare in esperienze traumatizzanti, ovvero che il soggetto non riesce a gestire nella propria psiche. E perciò ne rimane disturbato e impattato.
Bambini che guardano “Squid game” e poi ne simulano le azioni nel loro gioco durante l’intervallo scolastico forse stanno semplicemente imitando ciò che hanno visto. O forse ci stanno comunicando che dentro di loro è entrato “qualcosa” che devono buttare fuori, perché non sanno dove metterlo. Il gioco è il loro modo per tentare di farlo.
Ma il gioco non fa miracoli e certe cose possono “tatuarsi” nella loro mente e da lì non uscire più.
Come psicoterapeuta, rimango tuttora colpito da quanti pazienti adulti mi hanno raccontato di non aver mai superato la traumatizzazione conseguente a certi film dell’orrore visti da bambini o adolescenti; primo fra tutti ”L’Esorcista”.
La problematicità sta nel fatto che certi contenuti non vengono “metabolizzati” quando la mente non ha le competenze per riuscire a farlo. E la mente dei bambini e dei preadolescenti non è in grado di metabolizzare i contenuti di una serie come “Squid game”.
Anche se non l’ho vista, per tutto ciò che ho letto di questa serie e per il mestiere che faccio questa cosa la posso affermare con certezza.
“Vietato ai minori di 14 anni” non è un messaggio che reprime la crescita: in casi come questi la protegge, la sostiene e la promuove.
E forse noi adulti dovremmo smetterla di affermare “ a priori” che è “vietato vietare”, la cosa più frequente che mi sono sentito dire in quest’ultimo mese, dopo che è uscito il nostro libro che ha osato mettere questo verbo nel titolo.
Dovremmo fare una lunga riflessione su quanto è tossico l’ambiente in cui stanno crescendo i nostri figli, ma soprattutto su quanto siamo diventati fragili noi adulti nel fare il nostro mestiere di adulti.
Adulti con la A maiuscola non permettono ai bambini di vedere “Squid game”.
E in una società civile si dovrebbe fare di tutto perché ciò non avvenga.
Altrimenti l’unica cosa che succede è che qualche adulto ci pensa su solo dopo aver letto un post come questo su un social network.
Che è appunto un singolo post in mezzo a migliaia di altri post, che nello stesso social network, celebrano ed esaltano questa serie tv.
Leggete e fate leggere questo messaggio ad altri genitori, se lo ritenete opportuno.
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Il referendum e il falso mito delle cosiddette “droghe leggere”

Antonio Mazzi – su FC 40/2021

Il referendum e il falso mito delle cosiddette “droghe leggere”

 

Non riesco a capire perché il vaccino secondo alcuni sia quasi diffusore di morte e la cannabis invece sia un medicinale che per i suoi effetti benefici viene appena dopo il “sangue di san Gennaro” e l’invenzione della penicillina.

Credo che i miei quasi quarant’anni di vita con i tossicodipendenti possano testimoniare quanto siano intossicati (c’è anche una tossicità intellettuale) i promotori del referendum e coloro che l’hanno sottoscritto.

Quasi tutte le persone (e sono state migliaia) che sono passate per le mie trenta comunità avevano cominciato con le cosiddette “droghe leggere”. Purtroppo, sono stati centinaia i morti. Alcuni nomi sono scritti su una parete del­la nostra cappellina. Quelli che non sono morti, sono tornati sulle piazze, nelle galere, negli ospedali per l’Aids e nei cimiteri.

Per fortuna nemmeno un terzo dei miei ex ragazzi ha fatto questa fine. Però, i tossici intellettuali dicono che noi raccontiamo favole perché a detta di queste persone anche io, come gli altri miei colleghi, viviamo, sfruttiamo e facciamo i nostri affari proprio con la scusa delle droghe.

Non perdo tempo per riportare statistiche e percentuali. Solo mi rattrista pensare che queste scemenze passeranno in Parlamento e riempiranno i giornali per settimane trascurando problemi ben più gravi.

In Italia, certo, sono state legalizzate le cose più strane… E c’è persino chi ha tentato addirittura di associare il Green pass ad Auschwitz!

Forse ha ragione il nostro presidente Sergio Mattarella quando nel discorso tenuto a Pizzo Calabro per l’inaugurazione dell’anno scolastico ha detto che i ragazzi sono migliori dei loro genitori e dei loro insegnanti.

Cito frasi del discorso: È incoraggiante e importante l’adesione dei giovani alla campagna vaccinale: numeri che speriamo diventino sempre più grandi. Non di rado in famiglia sono stati proprio i giovani a spiegare le buone ragioni dell’immunizzazione, a rompere gli indugi e a fare per primi il vaccino, anche quando i genitori tentennavano. Volevano uscire da casa i ragazzi, tornare con gli amici, e così hanno aiutato tutta la società. Quando nascono grandi speranze sociali, i giovani sono protagonisti. Qualche volta le esprimono con radicalità. Con le scuole riaperte si allacciano i fili che si erano interrotti o che erano diventati più esili: certo, anzitutto lo studio, ma anche le relazioni, le amicizie, l’insieme di quelle esperienze cosÌ decisive nella vostra formazione. E questo trasmette energia a tutta la comunità nazionale. •

 

L’era della comunità infinita

da Avvenire 22/08/2021 
(questo è un estratto; vai all’articolo integrale)

L’era della comunità infinita

di Luigino Bruni

 

Comunità è parola tornata centrale. Invocata nelle solitudini e nella malattia, cercata e agognata quando le ‘community’ virtuali ci hanno sfinito e sentiamo il bisogno di respirare. I suoi legami caldi e forti ci chiamano e non ci lasciano in pace. La comunità sta però cambiando forme così rapidamente da non riconoscerla (quasi) più.

La metamorfosi è in atto ovunque, ma è molto evidente nell’ambito delle religioni e nelle Chiese, che senza comunità muoiono per diventare sterile consumismo psicologico ed emotivo. È infatti all’interno delle Chiese e delle religioni dove più si avvertono la nostalgia e la malattia della comunità, dove si ode forte il suo grido di richiamo, il suo S.O.S., il suo urlo.

Qualsiasi futuro dell’esperienza spirituale e religiosa non può oggi fare a meno di ripartire da una profonda riflessione, onesta e radicale, sulla comunità, con il coraggio di spingerla fino alle sue estreme conseguenze. […]

Le vecchie e nuove comunità desiderose di futuro dovrebbero iniziare a prendere molto più sul serio l’urgenza di un cambiamento importante della vita comunitaria. E invece la fanno poco, credendo che il rinnovamento necessario consista in un ritorno al carisma dei primi tempi, o in una nuova radicalità spirituale. E così investono le poche energie residue in battaglie secondarie che poi diventano le uniche e quando le forze in campo sono poche, sbagliare battaglia diventa fatale.

Servono nuove forme di vita comunitaria. Ma non è semplice capirlo, perché la scarsa ‘domanda’ di vita comunitaria oggi proviene spesso da persone fragili in cerca di appartenenze forti, attratte dal ricordo delle comunità di ieri. Tuttavia, nel nuovo ecosistema spirituale del XXI secolo sopravvivono solo realtà più liquide e meno strutturate, decentrate e meno compatte (…).

La domanda cruciale allora diventa: è possibile dar vita a comunità composte da persone libere e autonome evitando però il disfacimento della comunità stessa? La domanda non è retorica, perché tocca il primo vulnus delle comunità di ieri, che per sopravvivere in quanto comunità dovevano ridurre l’autonomia dei propri membri.

[…] Liberamente ciascuno donava la propria libertà, che una volta donata non c’era più, come in tutti i doni veri, e quei doni finivano per costruire mura per ‘proteggere’ quei doni. Le comunità alzavano attorno alle loro persone barriere all’uscita molto alte. Così le persone entravano e quasi mai uscivano (se non a costi altissimi, per le donne insostenibili). Mura fisiche, spirituali e psicologiche, tanto che quella volta che la porticina restava aperta l’uccellino restava dentro la gabbia non avendo la forza di spiccare un volo in un mondo troppo ignoto, e magari da quella porta entrava il gatto.

Le comunità di oggi vivranno se abbasseranno le barriere fino ad azzerarle, trasformando le mura in ponti, perché sarà su quei ponti dove le nuove vocazioni potranno entrare.

C’è un urgente bisogno di una nuova povertà, quella che si esprime come rinuncia al possesso delle persone, la povertà più difficile da vivere nelle comunità, perché le persone sono l’unica loro ricchezza: e più si vive la povertà dei beni, più cresce la non-povertà delle persone.

Vivranno le comunità che sanno abitare sull’orlo del proprio precipizio (…). Facendo propria questa regola aurea: se vuoi avere persone generative, creative e libere devi generare una cultura dove le persone sono talmente libere da non poterle controllare negli aspetti più importanti della loro vita. Devi imparare a vivere in mezzo ad un grande via-vai di gente, in entrata e in uscita; perché generare persone libere significa metterle nelle condizioni di potersene un giorno anche andare via.

Le comunità, soprattutto quelle spirituali e ideali, dovrebbero porsi come loro obiettivo formare persone che non restino oggi per gli impegni presi ieri, ma per i sogni di domani. È il futuro, non il passato, lo spazio delle promesse capaci di liberare davvero le persone. Non si resta ricordando un passato che ci ha imprigionato ma immaginando un futuro che continua a liberarci e a liberare gli altri.

 

Disposizioni anticovid

Disposizioni per ripresa attività pastorali

Riprendono le attività “in presenza” di catechesi e formazione per i bambini, ragazzi e adolescenti.
La ripresa delle attività pastorali al chiuso deve avvenire nel rispetto rigoroso delle disposizioni che già conosciamo:

distanziamento tra persone di almeno 1 metro (valutando l’ampiezza del locale)
igienizzazione delle mani all’ingresso
utilizzo costante di mascherina
aerazione frequente dei locali
utilizzo in sicurezza di vari materiali e strumenti per la catechesi e la formazione.

Le famiglie siano coinvolte nell’autorizzare la frequenza dei figli e nel garantire che essi non abbiano febbre o non siano tenuti a osservare la quarantena.
È opportuno avere gruppi piccoli e stabili in modo da facilitare il rintracciamento di eventuali positività covid.
Così pure, visto che si va verso la buona stagione, si valorizzino maggiormente gli spazi all’aperto.