Comunità del Crocifisso, alza la vela!
Omelia del Vescovo Francesco Lambiasi per la S.Messa conclusiva dell’Assemblea Parrocchiale, sabato 18 maggio 2019 alle ore 18.30
Ci sono parole che salgono dal cuore e affiorano alle labbra soltanto nel momento dell’addio, soprattutto l’ultimo, quello prima della morte, momento intenso e drammatico che Gesù ha vissuto in pienezza nell’ora in cui il diavolo aveva messo nel cuore di Giuda di tradire il Maestro.
Per Gesù è arrivata l’ora suprema e, “sapendo che veniva da Dio e a Dio tornava”, ha incominciato a pronunciare quello che possiamo chiamare il suo testamento, un testamento prolungato per almeno quattro capitoli, che si possono racchiudere tutti nella parola a lettere maiuscole, AMORE. La parola più bella, più tenera, più dolce e più forte, ma anche la più ambigua del nostro vocabolario.
Per farci capire questa parola, Gesù ne usa un’altra, che rischia anch’essa di risultare molto ambigua, ma che in realtà contiene la chiave di accesso per la corretta comprensione della parola “amore”, e questa parola è “gloria”.
Abbiamo ascoltato che quando Giuda fu uscito dal cenacolo, Gesù disse: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui”. Qui è contenuta la parola “gloria”. Penso che ci sarebbe stato molto da dire se fossimo stati presenti in quel momento supremo dell’ora di Gesù. “Ma, come maestro? Come puoi parlare di gloria, se ora stai per esporti all’infamia più vergognosa, la più orribile che ci possa essere? Tradito da un tuo discepolo, rinnegato dal primo dei tuoi discepoli, processato, esposto al vilipendio più turpe, respinto dalla folla, addirittura crocifisso? Come fai tu, a parlare di gloria?”.
Ma questa parola Gesù non se la rimangia, perché la gloria di cui parla non è quella mondana, che è fumo, è qualcosa di vaporoso, di impalpabile. “Gloria”, invece, nel linguaggio biblico è qualcosa di solido, di pesante.
La parola “gloria”, quindi, si riferisce al “peso” dell’amore, perché non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici, anzi dare la vita anche per i propri nemici per renderli amici. Non c’è amore più grande, vale a dire non c’è gloria più grande, perché l’evangelista Giovanni dipinge il cammino di ascensione verso il Calvario, come un cammino di esaltazione, di innalzamento. La croce, allora, è il trono glorioso di Gesù, di una gloria, appunto, che non è la gloria del potere, ma il potere dell’amore.
Questa è la gloria che il Padre dà al Figlio, per cui la croce è già illuminata dalla risurrezione che culmina nell’ascensione. Questa non equivale alla sottrazione di Gesù alla nostra presa, ma al contrario lo rende ancora più presente non solo a tutte le latitudini, ma a tutte le generazioni della storia, al punto che noi qui, oggi, non stiamo commemorando un Gesù ormai è morto e sepolto, che sarebbe, sì, asceso al Padre come fosse la distanza massima dalla nostra esperienza terrena. Gesù mantiene la promessa, le ultime parole del suo Vangelo secondo Matteo sono chiare e inequivocabili: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, quindi anche oggi, 18 maggio 2019, lui è qui. Il diacono ha annunciato la lettura del vangelo secondo Giovanni e alla fine avrebbe dovuto dire: Parola di Giovanni. Invece ha proclamato: Parola del Signore. È il Signore che ora ci sta parlando.
Già da queste povere battute capiamo quanto noi, fratelli e sorelle, abbiamo bisogno di ritornare alle sorgenti della Chiesa e il cammino di una parrocchia non può che essere un cammino di rinnovamento, di riforma, di conversione missionaria, come dice Papa Francesco.
Un cammino che è, innanzitutto, un ritorno, ma non nel senso della nostalgia. No, non siamo chiamati a morire di nostalgia. Siamo chiamati a ritornare alle radici, alle sorgenti sempre fresche, zampillanti, della nostra fede, e provocati a guardare avanti. Una parrocchia non può che essere un popolo in cammino verso il futuro.
Per questo è davvero particolarmente significativa ed eloquente questa parola che oggi ci è stata proclamata, perché molti di voi escono dall’Assemblea parrocchiale che è un evento significativo. Non è una sorta di riunione condominiale, tanto per sistemare le cose. Non è il momento del bilancio di un’azienda a reddito, in cui i capi si devono mettere seduti a fare quattro conti. È invece il cammino di un’Assemblea eucaristica, il vertice di questa Messa che stiamo concelebrando, sì, “concelebrando”.
Ma non c’è solo questo vertice eucaristico. Negli anni dopo il Concilio, quando ero prete giovane in parrocchia, sognavo che non ci si limitasse solo all’assemblea liturgica, ma che ci fosse anche l’assemblea pastorale, in cui dei fratelli, a nome di tutto il popolo santo di Dio che si ritrova in quel lembo di terra che è la parrocchia, si mettono insieme e fanno quell’esercizio che abbiamo sentito qui nella prima lettura presa dagli Atti degli apostoli.
“Paolo e Barnaba ritornarono a Listra, Iconio ed Antiochia”: “ritornarono”, perché vi erano andati in missione, ma poi non si sono limitati ad annunciare il Vangelo, non hanno concluso la missione con un “arrivederci e grazie”, ma sono ritornati per aiutare la comunità a non sedersi, perché, dopo la prima tappa, il rischio è di rimanere seduti. Ritornarono per confermare i discepoli ed esortarli a restare saldi nella fede perché dicevano “dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”. Allora designarono alcuni anziani in ogni chiesa, dopo aver pregato e digiunato, come era stato fatto per loro che proprio in seguito ad un’assemblea pastorale avevano ricevuto il dono dello Spirito che li ha stimolati ad affrontare l’avventura della missione. A Listra, Iconio e Antiochia dove sono ritornati, visto il processo di maturazione della comunità, hanno stabilito degli anziani, non dei vecchi, ma dei presbiteri-presidenti di queste comunità, e dopo aver pregato e digiunato li hanno affidati al Signore. Poi, attraversata la Pisidia hanno raggiunto la Panfilia e anche lì hanno annunciato il Vangelo.
Fratelli e sorelle, noi stiamo vivendo un’epoca davvero magnifica e drammatica, come sono state tutte le epoche della chiesa. Quando mi capita di andare in una chiesa antica, vedo che sulle varie lapidi nelle quali si scandisce il cammino di costruzione di quella chiesa o la data dei restauri, c’è sempre scritto: Nell’anno di grazia del Signore 1227, oppure: Nell’anno di grazia del Signore 1548, e così via. Sono tutti “anni del Signore”, anche gli anni che stiamo vivendo noi, che qualche volta ci verrebbe da definire i più disgraziati, ma non esiste l’epoca più difficile nella storia della Chiesa. Tutte le epoche sono difficili e facili insieme, ma sono tutte diverse. Abbiamo, certo, delle difficoltà inedite, ma abbiamo anche delle risorse del tutto nuove. Pensate, per esempio, alla risorsa del diaconato. 12 anni fa, quando sono venuto a Rimini, c’erano 30 diaconi e mi sembravano moltissimi, oggi sono 58. Non è questione di numero, è questione di grazia.
Fratelli e sorelle, noi oggi rischiamo l’autoreferenzialità, rischio sempre in agguato nelle nostre comunità, quello di stare lì a leccarci le piaghe e lamentarci: “Vengono sempre meno giovani in mezzo a noi… Siamo sempre più anziani… Siamo sempre di meno… Ci sono sempre meno preti…” e via di questo passo. Così noi cristiani rischiamo di autoflagellarci e di seppellirci nei nostri stivali, invece il Signore ci scuote, ci dice: Io sono con voi. “Sono con voi” non in modo magico, miracolistico, ma “sono con voi” con tutta la capacità di profezia di cui il popolo santo di Dio è dotato. Allora mi viene da dire: “Comunità del Crocifisso, rimettiti in cammino. Alza la vela e lascia che si gonfi per il vento dello Spirito”. Certo, non siamo noi i padroni del vento, ma possiamo tenere alta e orientare la vela. Questa è la nostra responsabilità.
Oggi la parrocchia non è più fatta da tutti quelli che sono sul territorio. Non siamo più la parrocchia di tutti, ma siamo e dobbiamo sempre essere a disposizione per tutti, perché siamo Chiesa. Siamo lievito. Siamo sale. Quello che importa non è quanto sale ci sia, ma che il sale sia sale, sia saporito, non sia ormai scipito. Allora riprendiamo coraggio. Dobbiamo osare di sperare. Un filosofo antico, Seneca, diceva che noi non osiamo non tanto perché le cose sono difficili , ma le cose sono difficili perché non osiamo.
Noi cristiani custodiamo il messaggio della speranza. Abbiamo ascoltato dal libro dell’Apocalisse un brano che, se ci avessimo pensato, forse non l’avremmo scelto per questo contesto assembleare che la comunità sta vivendo. “Io Giovanni vidi un cielo nuovo e una terra nuova”. Ecco la novità dello Spirito del Signore. Noi siamo una Chiesa che sa additare il traguardo finale. Non siamo dei pacchi postali spediti dall’ostetricia all’obitorio. Siamo dei cristiani in cammino. Dobbiamo e possiamo camminare.
E quale testimonianza possiamo dare? Non tanto l’organizzazione. Dobbiamo stare attenti: la smania dell’organizzazione è una malattia che spesso affligge le nostre comunità nelle quali c’è una overdose di organizzazione e poi magari si riscontra un deficit di iniziativa, di slancio, di entusiasmo. Il Papa ci dice di rinnovare, addirittura, la nostra faccia. Non conta metterci il trucco. Non possiamo avere una faccia da funerale perché il vangelo è un messaggio di gioia, di speranza, di luce, soprattutto quando si registra un blackout generale come stiamo vivendo in questi tempi.
Gesù non ha vissuto tempi migliori; non ci sono mai stati tempi migliori. Tutti i tempi sono propizi all’annuncio del Vangelo. Altri, quando noi indicheremo il sole e la luna del Regno dei cieli, guarderanno il nostro dito.
Allora qual è il nostro segno di riconoscimento? Lo ha detto Gesù: “da questo riconosceranno che siete miei discepoli”. Questa non è solo la carta di identità di Gesù. È la carta d’identità di noi che siamo suoi discepoli: “Se avete amore gli uni per gli altri”. Questa è la gloria che il Signore Gesù dona alla sua sposa, la Chiesa.
In breve, abbiamo bisogno di tanta fede, perché credere che Gesù sia presente nell’Eucarestia forse non fa tanta difficoltà, ma credere che Gesù è presente nella nostra comunità, nella Chiesa, la Chiesa di Papa Francesco, la Chiesa del sottoscritto Vescovo Francesco, questo è il punto. Ricordiamo: la fede è un dono prima che un impegno. Questa è la gloria che Dio fa brillare sul volto della sua sposa, la Chiesa. Noi rischiamo di vedere solo le rughe sul volto della sposa, dimenticando poi che quelle rughe sono i nostri peccati, le nostre infedeltà, le nostre incoerenze. Magari puntiamo il dito contro il Papa, contro il vescovo, contro i preti, contro i diaconi, contro i fratelli, dell’altro quartiere, dell’altra parrocchia, e non lo puntiamo mai verso di noi.
Di nuovo: qual è il segno di riconoscimento? L’amore. L’amore che rende nuove le cose vecchie, che rende facili le cose difficili, che rende possibili le cose impossibili.